
Sono passati più di vent’anni, ma la figura di quel vecchio capannone ci riporta ancora alla memoria la storia di chi ebbe un sogno: una francese che parlasse emiliano.
Le auto, affare da ingegneri e tecnici penserete voi, vili genti meccaniche penserete, proprio voi che di un tale Ettore Bugatti non avete mai sentito parlare, un uomo che fece della chiave il suo pennello, e della vettura la sua tela. Arte, nient’altro che arte, pura e suprema espressione del genio dell’uomo: questa fu la vita di Ettore Bugatti, e questa la storia delle sue creazioni.
Suo padre, Carlo Bugatti, fu un rilevante designer di mobili e gioielli Art-Nouveau; suo fratello minore, Rembrandt, morto suicida, un importante scultore, come il nonno Giovanni Luigi d’altronde; sua zia Luigia invece, fu compagnia di Giovanni Segantini, non proprio uno dei tanti: da una famiglia tale, non ci si sarebbe potuti aspettare altro che un grande artista, destinato a segnare per sempre la storia dell’automobilismo con il suo tratto indelebile.
Ettore Bugatti le cose le ha sempre fatte così come voleva, alla ricerca della massima espressione di quanto volgarmente ci limitiamo a definire vettura. Un uomo che ha incarnato l’essenza del pionierismo automobilistico più di chiunque altro, sempre alla ricerca delle soluzioni più ardite ma proprio per questo più affascinanti, con l’unica preoccupazione di dar forma alle sue idee in un continuo e folle sussulto futuristico che gli ha regalato le gioie più grandi così come le delusioni maggiori. Una corsa meravigliosa la vita della Bugatti, vissuta attraverso la gloria della Type 35, mattatrice dei Grand Prix europei per tutti gli anni venti, l’auto che più di tutte ha contribuito a costruire il mito delle auto di Molsheim, e che si è tristemente infranta sul muro di un destino funesto e beffardo, fatto della morte del figlio Jean nel ’39, l’unico destinato a poter accogliere l’eredità del genio paterno, senza contare la cronica instabilità economica della casa, inevitabile data la condotta storica tutt’altro che regolare. Venne la guerra e la Bugatti se ne andò, e poco dopo anche quello che restava del suo fondatore, ma lo spirito che l’aveva forgiata continuò a vivere nel mito e nella memoria, destinato a muovere altre mani: molti anni dopo certo, ma la Bugatti sarebbe tornata.
Romano Artioli questo l’ha sempre saputo, dando atto a ciò che era già scritto, far risorgere la Bugatti dalle sue stesse ceneri. Lontana suo malgrado dall’abbraccio amorevole dell’Alsazia, la fenice EB 110 avrebbe spiccato il volo in ben altro contesto, nel cuore pulsante della Motor Valley emiliana, nel recinto sacro del motorismo italiano. Era il lontano ’87, ed ecco che la storia Bugatti riparte all’insegna dello stessa filosofia di un tempo, con lo stesso spirito e la stessa passione: un auto che aveva un solo obiettivo, rappresentare la quintessenza dell’arte su ruote, senza compromessi, senza discussioni, la massima espressione tecnologica, il massimo lusso. Semplicemente il massimo, in tutto. Ed eccolo il gioiello di Campogalliano, con il suo 3.5 V12 quadri-turbo, cinque valvole per cilindro, trazione integrale, e la prima vettura di serie costruita su una monoscocca in fibra di carbonio: nel ’91, tutto ciò equivaleva semplicemente al meglio che si potesse trovare. Ma ecco che la storia della Bugatti si blocca ancora, prima ancora di ricominciare, nonostante i migliori auspici e i grandi sforzi compiuti per rendere possibile questo sogno.
Un azzardo, una vettura incompresa, troppo rivoluzionaria per essere apprezzata come avrebbe meritato, realizzata con investimenti notevolissimi sotto ogni aspetto, forse non del tutto sostenibili, nonostante gli ordini e il prezzo adeguato ai contenuti della vettura: ma parliamo di Bugatti, parliamo di arte, e così lo stesso Ettore avrebbe fatto. La storia si è ripetuta semplicemente perchè il tracollo è connaturato allo spirito che ha mosso le mani di chi la Bugatti l’ha creata: “l’art pour l’art”, mirabile e nobile come nulla, sensuale e decadente, destinata a sfiorire con il primo vento d’autunno, questa la creatura di Molsheim.
Così com’è venuta se n’è andata la nostra Bugatti emiliana, un fiore sbocciato e subito appassito, probabilmente troppo distante dal conservatorismo che ha reso grande la terra che l’ha accolta, la terra di chi ha sempre badato prima a fare grandi motori e poi pensare al resto, di chi il carro l’avrebbe lasciato volentieri dietro il cavallo, di chi è cresciuto tra i campi e le officine, di chi pensava che l’aerodinamica fosse affare da garagisti, di chi semplicemente non era Ettore Bugatti. Probabilmente non era la sua terra, indipendentemente da tutto, indipendentemente dagli oscuri presagi che scaturiscono dalle parole di Artioli, l’ombra di un “complotto rosso” dalle tinte assai fosche, ma che ad oggi possono essere prese solo come voce del dolore di un uomo che s’è visto portare via il suo mondo. Il suo destino non era qui, semplicemente: resta il ricordo e l’orgoglio di quanto s’è fatto, ma purtroppo ancor di più il rimpianto di chi a Campogalliano c’ha lavorato, di chi ha lottato per riportare la Bugatti alla vita, di chi c’ha creduto fino alla fine e ha dato tutto se stesso, di chi il sogno se l’è visto scappare di mano.
Resta un capannone: dicevano fosse la fabbrica più bella del mondo…